La legge saudita impone ai datori l’assunzione di cittadini del Regno

Pochi giorni fa, in Canton Ticino si è tenuto un referendum che trattava di una modifica costituzionale (poi approvata) tesa ad avvantaggiare nelle assunzioni i cittadini svizzeri rispetto ai lavoratori di frontiera, soprattutto i 60000 italiani che lavorano nel Cantone svizzero. Anche nella Gran Bretagna post Brexit, con il venir meno delle regole europee sulla libera circolazione dei lavoratori, potrebbe accadere lo stesso. Una legge dello stesso tenore è in vigore da molti anni in Arabia Saudita e più volte è stata corretta vista la sua difficile applicazione nella realtà. La legge saudita è chiamata “Saudization” e impone a tutte le ditte locali, siano esse di capitale saudita o straniero, di assumere una certa percentuale di cittadini del Regno, modulata secondo il numero totale dei dipendenti.

Saudi Arabia
Saudi Arabia

Le ragioni di questa legge risiedono nel fatto che la disoccupazione giovanile tra i sauditi è sempre più alta, anche a causa dell’abbassamento dell’età media della popolazione, e il numero di lavoratori stranieri, specialmente indiani o pakistani, è particolarmente elevato nel settore delle costruzioni. Fin dal quarto piano di sviluppo (1985 — 1989) fu chiesto alle aziende private la sostituzione dei lavoratori stranieri già in carica con dei nativi sauditi. Gli inviti non sortirono, però, alcun effetto e in fasi successive il Governo cercò di porre condizioni più stringenti ai datori di lavoro. Nel 2003, ad esempio, si fissò una percentuale minima del 30% di sauditi per tutte le compagnie con più di venti lavoratori. Qualche risultato fu ottenuto e l’occupazione dei cittadini locali nel settore dei trasporti e delle comunicazioni passò dal 9 al 20% Anche il settore delle manifatture ottenne un incremento passando dal 13 al 19% degli occupati, mentre la vendita al dettaglio e il settore delle costruzioni aumentarono rispettivamente dal 12,9 al 18,4 e dal 7,2 al 10,3.

Ancora insoddisftti dei risultati, nel 2011 e poi nel 2013, si introdusse un programma chiamato Nitaqat (zone). Si trattava di classificare tutte le aziende in quattro categorie: premium, verde, giallo e rosso. Secondo la percentuale di dipendenti locali impiegati, la società veniva così classificata e poteva godere o meno di alcuni privilegi. Per le categorie più basse, cioè la gialla e la rossa, furono introdotte limitazioni nell’ottenimento di visti per i nuovi lavoratori stranieri, gli si impediva di assumerli da altre aziende e, nel caso della categoria rossa, era loro proibito il rinnovare i permessi di lavoro per gli stranieri già occupati e l’aprire nuove filiali o uffici. Entro la fine del 2013, 90.000 indiani furono costretti a lasciare il Paese e circa 360.000 dovettero cambiare i loro titoli di lavoro per legalizzare il loro status. In compenso, più di 200.000 società nel 2014 dovettero chiudere (o scelsero di farlo) a causa del non rispetto delle condizioni imposte. Dai primi di settembre di quest’anno è diventato obbligatorio nel settore delle telecomunicazioni che tutti i dipendenti, con nessuna eccezione, siano cittadini sauditi. La cosa riguarda la produzione, la vendita, l’assistenza, la riparazione e tutta la normale manutenzione.

La legge prevede anche condizioni particolari per donne saudite o persone disabili. Le prime sono “accompagnate” dal Ministero del Lavoro attraverso la formazione professionale, i secondi, se assunti, sono calcolati ai fini della percentuale come quattro lavoratori “abili”. Tuttavia, anche in Arabia Saudita come altrove: “fatta la legge, trovato l’inganno”. Che cosa è successo? Si è scoperto che molte donne erano formalmente assunte con un salario ufficiale di 3.000 Rials il mese ma con l’accordo che ne prendessero solo 1.500 e se ne stessero a casa. Si è pure costatato che la stessa cosa succedeva con i disabili e in questo caso con l’aggravante che si trattava, molto spesso, perfino di falsi handicappati.  A questo punto è bene sapere che i lavoratori stranieri godono normalmente di un salario che di solito rappresenta 1/3 di quello dei locali. Tuttavia, il problema per i datori di lavoro non è solo una questione di compensi da elargire. Purtroppo, i giovani sauditi sono spesso privi delle competenze necessarie per la maggior parte dei lavori offerti. Nonostante un numero significativo di laureati, solo il 20% di loro ha qualche competenza tecnica o scientifica perché la maggior parte ha scelto facoltà indirizzate su temi in qualche modo religiosi. Inoltre, molto spesso manca loro la motivazione nel lavoro con aziende private perché l’ambizione di tutti è quella di puntare agli incarichi nel settore pubblico. Anche tra le donne (su circa un milione ufficialmente in cerca di lavoro solo il 33% è maschio) ben 682.000 hanno rifiutato un impiego loro offerto dai privati. La maggior parte dei sauditi è, infatti, assunto da enti governativi, ma la capienza dell’apparato statale non è sufficiente per assorbire tutte le nuove leve che si affacciano, almeno teoricamente, al mondo del lavoro.

Lontano dai microfoni, i commenti degli imprenditori sono ferocemente contro la Saudization: “Io vorrei assumere dei ragazzi sauditi, ma mi spiega perché dovrei prendere qualcuno che so già che, frequentemente, non si presenterà al lavoro, che se ne frega e che comunque non potrò licenziare?“. Un altro: “Datemi un rimpiazzo che abbia la preparazione necessaria e un po’ di esperienza ed io smetterò di assumere lavoratori stranieri“. Ancora: “Anche se troviamo un giovane saudita preparato, il suo stipendio dovrà essere molto alto e troppo costoso per noi. E’ inimmaginabile che un ingegnere appena laureato venga da me e pretenda un salario quattro volte più alto di ciò che pago a un ingegnere straniero con più di vent’anni di esperienza. Anche se accettassi le sue condizioni, la sua produttività sarebbe nulla e ciò avrebbe un impatto negativo sulla produttività degli altri membri dello staff“. Queste reazioni, condivise da tutti i datori di lavoro siano essi locali o stranieri, spiegano perché, nonostante il rischio di essere imprigionati fino a due anni e multe che possono arrivare fino a 365.000 dollari, molti datori di lavoro ricorrono a trucchi di vario genere per soddisfare solo formalmente le imposizioni governative. Qualcuno, incredulo, si è chiesto: “Come si può credere esserci migliaia di donne saudite impiegate nel settore delle costruzioni o presso dei contractor quando nessun uomo saudita riesce a trovare un lavoro in questo tipo d’industria?“.

La disoccupazione globale in Arabia Saudita è oggi ufficialmente all’11,6% e l’obiettivo del governo è di abbassarla al 7% entro un anno. Consapevoli dei trucchetti usati dalle imprese, il Ministero ha elaborato una forma ancora più stringente di Nitaqat e ha lanciato numerosi programmi di controllo miranti a verificare l’esistenza di disabilità vere e l’effettiva presenza sul posto di lavoro. Che il progetto funzioni o no è tutto da vedere ma già qualche imprenditore osserva: “Se il governo continua a insistere su questa saudizzazione obbligatoria senza darci giovani lavoratori con voglia di lavorare e adeguatamente formati, potremo presto vedere società saudite spostare i loro quartieri generali e le loro strutture in uno dei Paesi del Golfo per approfittare delle agevolazioni loro offerte“.

Fonte: sputniknews.com